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Siamo nati per andare oltre i nostri limiti, o accettarli?

Siamo nati per andare oltre i nostri limiti, o accettarli?
Siamo nati per andare oltre i nostri limiti, o accettarli?

L’idea pessimista, e un po’ ingenua, che alcuni hanno dell’infanzia è che sia la fase in cui si creano tutte le ferite e le difese caratteriali, che ci porteremo come un fardello per tutta la vita.
In realtà le qualità naturali di un bambino sono quella dell’energia vitale, la curiosità , il gioco e l’affettività.
L’infanzia, e tutta la nostra esistenza, si basa molto spesso sull’equilibrio tra forze opposte e dinamiche.
In natura esiste una motivazione generale alla trasformazione, che pulsa constantente dentro di noi.
La tendenza innata per la crescita, l’esplorazione e l’apprendimento, è radicata nel nostro cervello, e si esprime quando le circostanze lo consentono.
A questo però si contrappone una tendenza conservativa. che invece è programmata per difenderci dal pericolo.
La tendenza difensiva mostra un rapporto diretto con il grado di traumatizzazione che ha subito l’individuo, in particolare durante la fase infantile.
Mentre le prime, quando vengono realizzate, danno energia e vitalità, le seconde, a lungo andare, consumano l’energia psichica.
In tal senso possiamo considerare il trauma come una interferenza (inevitabile) al dispiegarsi delle nostre naturali tendenze trasformative.

Nel regno mammifero, a cui a appartiene la razza umana, eventi percepiti come una minaccia alla sicurezza innescano difese “sottocorticali” specifiche.
Per “sottocorticali” si intendono reazioni che coinvolgono la parti più antiche nel nostro cervello (quelle appunto “al di sotto” della nostra corteccia cerebrale).
In altri termini vuol dire che esistono comportamenti difensivi che possono nascere, e restare in azione, senza l’intervento della nostra coscienza.
Tali comportamenti, in parte innati, ed in parte appresi, possono essere categorizzati tendenzialmente in 3 sottosistemi: ricerca della relazione, mobilizzazione ed immobilizzazione.
La ricerca della relazione descrive quei comportamenti che, in caso di disagio o pericolo, tendono ad avvicinarci alle figure di accudimento, o a sollecitare il loro intervento. Un esempio tipico può essere il pianto di attaccamento.
La mobilizzazione può essere intesa come la predisposizione di tutto il nostro organismo all’azione. Che può essere, a seconda delle circostanze, quella dell’attacco oppure della fuga.
L’Immobilizzazione invece può essere considerata la strategia innescata nelle forme più estreme.
Quando ad esempio la preda non ha più scampo, il congelamento, può essere una forma efficace per fingersi morto, oppure per sentire meno dolore di fronte ad una morte inevitabile.
In forma più evoluta, l’immobilizzazione può essere messa in atto quando un comportamento aggressivo provocherebbe solo una risposta ancora più violenta da parte di un aggressore, manifestamente più forte di noi.
Alcuni studi dimostrano una cosa davvero interessante. Le difese di immobilizzazione vengono utilizzate anche quando la figura di accudimento corrisponde a quella dell’aggressore.
Per aggressione non si intende però solo quella legata alla violenza, fisica o psicologica.
Sopratutto per noi umani, il trauma può essere anche quello “carenziale”, legato cioè ad una mancanza affettiva.

Abbiamo quindi detto che dentro di noi esistono due tendenze, una trasformativa ed una difensiva.
Il prevalere dell’una piuttosto che l’altra dipende dalle esperienze vissute (o subite) nella nostra vita.
Abbiamo anche detto che queste tendenze sono codificate nel nostro cervello.
Possiamo anche aggiungere che il nostro cervello è stato programmato per adattarci all’ambiente circostante, e non per essere felici.
Però, per fortuna, nemmeno per essere infelici e predestinati.
Se infatti facciamo riferimento alle nostre conoscenze del cervello, sappiamo anche che la parte più “recente”, vale a dire la corteccia cerebrale, ha una funzione fondamentale per la regolazione delle nostre emozioni.
In particolare quella prefrontale, che rappresenta il riflesso più sofisticato della nostra evoluzione , è associata alla pianificazione di comportamenti socialmente complessi, all’espressione della personalità, al pensiero astratto, ed alla autocoscienza.
In altre parole, quella che ci rende, nel bene o nel male, umani,

Ora, torniamo alla domanda che ha dato il titolo a questo articolo.
Se qualcuno si attende una risposta puntuale, temo che rimarrà deluso.
Io sono solo in grado di riformulare la questione in termini “scientificamente” più corretti.
Personalmente, non consiglierei a nessuno di utiizzare la nostre forme evolute di autocoscienza durante una scossa di terremoto, oppure mentre stiamo per essere investiti da un camion.
Per quello, la parti più antiche del nostro cervello funzionano benissimo.
Ma se, nelle circostanze adatte, utilizziamo le nostre naturali capacità di autoriflessione, possiamo sicuramente chiederci. Che parte di noi stiamo utilizzando? Magari senza saperlo, stiamo usando la parte sbagliata di cervello. Magari stiamo ancora reattivamente combattendo, quando la guerra è finita. Oppure stiamo arretrando quando la vita ci richiede coraggio.
E magari, conoscere com’è stata la nostra vita, e come funziona il nostro cervello, può aiutarci a fare la cosa giusta, nel momento giusto,

 

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