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Come contribuiamo involontariamente alla nostra sofferenza

Come contribuiamo involontariamente alla nostra sofferenza
Come contribuiamo involontariamente alla nostra sofferenza

Ricevo per il primo colloquio Elsa (nome ovviamente di fantasia).
Si presenta nel mio studio una donna bella, elegante, spigliata. Ha una bella stretta di mano, un sorriso aperto, un modo di fare sicuro di sé, senza essere ostentato.
“Una paziente perfetta” mi dico “una volta tanto un lavoro facile!”
Ma quando si siede di fronte a me, alla classica domanda: “in che modo posso aiutarla?” tutto improvvisamente cambia.
Resta in silenzio, si guarda intorno innervosita.
Immagino sia solo imbarazzo…
Ma nei suoi occhi, che ogni tanto mi guardano (sarebbe meglio dire “mi fissano improvvisamente”), leggo qualcosa che mi preoccupa.
Qualcosa che oscilla tra la sfida e (addirittura) l’odio.
“ho fatto qualcosa che l’ha disturbata?”
“c’è qualcosa nella mia stanza che l’ha infastidita?”
“si tratta di una paziente molto più grave di quello che avevo immaginato nei primi istanti?”

Dopo un lungo silenzio imbarazzante, bisbiglia qualcosa che a malapena riesco a sentire: “che fatica!”
Dicendolo con un  tono a metà tra il rabbioso e lo sconfortato.
Ma lo sta dicendo a sé stessa.
A me invece chiede: “vuol farmi lei qualche domanda, dottore?”
Ma, se non vuol dirmi cosa è venuta a fare, cosa dovrei chiederle?
Quanti anni ha? Che lavoro fa? Il suo segno zodiacale?
Così, giusto per rompere il rompere il ghiaccio. (ovvero, questo silenzio che rischia di essere agghiacciante)
Oppure potrei esplicitare le mie paure, e chiederle se ho fatto qualcosa che l’ha offesa.
Così, giusto per farle venire il dubbio di essersi scelto un terapeuta più ansioso di lei, nella migliore della ipotesi. (ed un paranoico, nella peggiore)
Ma in realtà non è necessaria alcuna domanda.
Mi ha già mostrato, senza saperlo, il cuore del suo conflitto.
Ha bisogno di parlarmi, ma non può.
Ha bisogno del mio aiuto, ma non si fida.
Avere bisogno, e non fidarsi, rappresenta un conflitto tremendo.
Non ti permette né di andare, né di restare.
L’atmosfera che si è creata tra noi mi ha raccontato quello che lei non riesce a dirmi.
E mi ha raccontato anche il dramma che, involontariamente, rischia di costruire ogni volta. In particolare nelle sue relazioni.
Nella migliore della ipotesi, io non sarei in grado di aiutarla.
Non essendo purtroppo capace di leggere nel pensiero, e quindi di indovinare il motivo per cui è entrata nel mio studio.
Ma nella peggiore, se prendessi cioè “sul piano personale” il suo atteggiamento,
mi sentirei rifiutato, ingiustamente caricato di una ostilità che non merito, e che non comprendo.
Che rappresenta effettivamente “il problema per il quale è venuta”, come mi dirà nel momento in cui riesce a parlarne (una volta disinnescate le difese inconsce e disfunzionali).

Ciò che si è creato un tempo lontano, è ancora presente.
Non c’è bisogno di attendere mesi, o addirittura anni.
Bastano pochi secondi. Il tempo necessario per percorrere i pochi metri che collegano la porta di ingresso alla sedia del mio studio.
..e per entrare nel ruolo di paziente (etimologicamente, colei che soffre. E che quindi ha bisogno)
Ognuno inevitabilmente mostra il passato eternamente presente delle proprie difese.
Il modo in cui ha imparato a difendersi.. da qualcosa che da piccolo non era in grado di gestire.
Ma che da grande non manca di far pagare il suo prezzo.
E che probabilmente ha cominciato ad essere un prezzo troppo alto, e sproporzionato.
Chi è causa (involontaria) del suo male, è fortunato. Perché ha la possibilità di vedere, anche se con fatica, il modo in cui tali difese contribuiscono invisibilmente al proprio malessere.
Quello che un tempo ha avuto ottima ragion d’essere ( o più semplicemente, l’unico mezzo che si aveva a disposizione), ora è diventato disfunzionale.
Crea molti più problemi di quelli che risolve.
Se dipende da altri, non possiamo fare nulla. Siamo impotenti.
Ma se dipende in (buona) parte da noi, siamo potenti!

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